Via il dente, via il dolore

Da quanto tempo era là, sotto il sole cocente di luglio, seduta sul lastrone nell’aia del vicino Berto, col capo coperto da una pezzola annodata alla meglio? Neanche Bruna avrebbe saputo dirlo. Bella non era mai stata, ma rughe recenti ai lati della bocca e la pezzola facevano pensare a più dei suoi ventitrè anni.
Più o meno nello stesso punto della corte, giorni prima Erina, moglie di Berto, aveva messo in fila diverse donne davanti all’ultima nata, Elvira. La piccola, di un paio di settimane, era diventata un pallone rosso che strillava a tutte le ore: stava sempre nuda perché non sopportava nessun tipo di contatto. Un mostriciattolo, un diavoletto: sembrava proprio che fosse stata fatata.
Il dottore, che non aveva tempo da perdere con i poveri, aveva scosso la testa: “Sposa, portate pazienza. Qui ci vuole il prete”.
Erina non l’aveva ascoltato: si era seduta nell’aia, aspettando il consiglio delle comari.
Una di loro disse: “Ne hai provate tante. Perché non la ungi col miele?”.
Berto era in casa. Inforcò subito la bicicletta e partì. Uomo di mille risorse, tornò presto con un grosso vaso. Il miele fu spalmato a dovere sul corpicino di Elvira, che venne avvolta in un asciugamano.
Qualche giorno dopo Bruna seppe che la bimba aveva preso un colorito normale e si era sgonfiata. Non strillava più come prima, poppava pure con appetito.
Da buona vicina, la donna andò subito a trovare la piccola. Vide che era tutto vero.
“Chiederò consiglio anch’io!” pensò Bruna, “Devo trovare un rimedio.”
Ora appunto si trovava lì, seduta sul lastrone, col labbro superiore spaccato e col dente sotto spezzato. Non era scivolata e caduta, neppure aveva battuto la testa in qualche cantone. Decise di ignorare ancora per un po’ il dolore del dente, che però aveva ripreso a pulsare.
Uomini e donne cominciarono ad avvicinarsi e a chiedere che cosa fosse successo. Bruna raccontò l’essenziale, poi li ascoltò tutti con pazienza, uno dopo l’altro, ma non poté evitare di scuotere la testa: i consigli assomigliavano troppo a quelli del prete.
“Ma come è cominciato tutto?” cominciò a rimuginare fra sé, quando restò sola.
*
Vedovo da tempo, suo padre mezzadro l’aveva presa in disparte nel fienile.
“Figliola, ho parlato col padrone. Mi manderà via, se non ho altri figli, meglio maschi.”
“Non vi basta Spiridione? È un bracciante robusto, lavora sodo.”
“No, non basta. Non ho finito. Ho già sentito il sensale: anche la zitella più scalcagnata non mi vorrà, se trova in casa una figliastra della tua età. Due galli nel pollaio …”
“Ma io sarei buona!”
“No no, non mi posso fidare. Se vuoi contentare tuo padre, devi andar via.”
“Come fo, dove vo? So solo fare la contadina.”
“Ti sposi e te ne vai con tuo marito. Gli ho trovato un piccolo casale in affitto in una corte, vicino ad Altopascio. Sai dove è?”
“Sì, lo so. E chi sarebbe codesto?”
“Spiridione!”
Bruna non volle: accasarsi con quel bestione di livornese, buono a scaricare navi e ora a zappare la terra! Ecco perché la guardava sempre.
“Ho fissato il fidanzamento per domenica. Fa’ buono per desinare. Vestiti ammodo. Sorridi. Verrà solo, perché è orfano.”
Venne quella domenica: vestito a puntino forse per la prima volta in vita sua, il fidanzato era imbarazzato con quel mazzetto di fiori di campo in mano. Un vero maiale col fiocchino, pensò Bruna. Nel frattempo, si era convinta che lui o un altro sarebbe stato uguale.
Dopo la promessa, col cappello in mano Spiridione chiese al suocero: “Chiedo il permesso di fare all’amore con la mia fidanzata.”
“Sì, ora potete. Tornate prima di buio.”
Nella vigna, in un angolo ombroso del fossetto, Spiridione prese Bruna per la vita e la spinse in terra. Senza riguardo le montò addosso, le tirò su la gonna e giù le mutande, le combinò di tutto. Lei non capì, non reagì. Il male che sentiva ….
“Roba mia, roba mia … Il bastone ce l’ho io!”
La domenica dopo, nel frutteto, la scena si ripeté.
“Don Pietro ha detto che è peccato.”
“Prete o non prete, la patatina stretta è buona lo stesso!”
Tutto quell’andirivieni durò per diverse settimane, finché un giorno mentre lavorava nei campi Bruna svenne.
Il padre e Spiridione accorsero e la portarono in camera. Fu chiamata una donna, che la guardò fissa in volto e poi la visitò. Disse agli uomini: “Affrettate lo sposalizio: questa ragazza è pregna. Due mesi. Pancia ritta non porta cappello: una femmina. La gravidanza sembra bruttina, state attenti. Da quel che vedo, giovane, vi siete divertito parecchio. Fino a quaranta giorni dopo il parto andrete a sfogarvi altrove!”.
Cocci di bottiglia sotto i piedi scalzi, i ricordi di Bruna si fecero frammentari, ancor più dolorosi.
Il vestito da sposa della mamma riadattato, gli spilli che la pungevano. La funzione che sembrava più un funerale che uno sposalizio. La donna dai capelli rossi, che passandole accanto le fece un sorriso trionfante e si accostò al padre… Bruna era piena di schifo per tutto quanto. Sentendosi la vera all’anulare, buttò un urlo e si mise a vomitare. Perse i sensi. Dovettero portarla a casa a braccia, mentre tutti gli altri, don Pietro compreso, approfittarono del banchetto di nozze, pagato dal padre.
Appena lei si rimise, Spiridione la portò alla corte Mazzanti vicino alle Spianate di Altopascio. Il casale, umido da cima a fondo, il pagliericcio di foglie di granturco che chiamavano letto… Poi il parto: la bimba, settimina, non voleva saperne di nascere. Quando vide la neonata, Spiridione disse che non gli importava una sega di quella pisciona e permise al suocero di chiamarla Lia.
Nelle tenebre uno spiraglio di luce: la piccola divenne l’unica ragione di vita di Bruna. Quando Spiridione non era in casa, Erina le portava bocconcini e latte della Bionda.
Quaranta giorni dopo la nascita di Lia, il marito reclamò il debito coniugale con tutti gli interessi. Si servì della moglie nella maniera più sconcia possibile.
“Sotto le coperte non c’è miseria.”
Tre mesi dopo Bruna si trovò di nuovo incinta.
Spiridione chiese alla levatrice:
“Un’altra pisciona? Spero proprio di no.”
“È un maschio.”
“Buono. Allora basta complimenti.”
Presto la giovane si trovò piena di pizzicotti e lividi dove non batteva il sole. I dispetti e le offese non si contavano più.
Erina si ammoscò, ma lei non si confidava: raccontava tutto solo al confessore.
“Nella Sua infinita bontà Dio ti ha concesso un giovane che si spacca la schiena per mantenervi. La colpa è tua: hai la lingua lunga. Dieci Ave Marie e cinque Pater Nostri.”
Bruna cercò di comportarsi nel miglior modo possibile, ma non servì a nulla.
L’ultimo mese, poi… A tavola già apparecchiata Spiridione rientrò dai campi, lei era seduta con Lia pronta a mangiare con lui. Invece di essere contento, quello si avventò ringhiando:
“Mi montano… Mi montano… mi montano…”
Colta di sorpresa, Bruna scappò in camera. Quando sentì il marito uscire, si fece coraggio e scese: scoprì che quell’animale aveva fatto fuori anche la sua razione di cibo. Il fiasco di vino era vuoto. Lei, che non stillava mai una lacrima, scoppiò in un pianto disperato.
La scena si ripeté diverse volte, l’ultima volta proprio al desinare del giorno del consiglio. Lei accennò una qualche reazione e presto si si ritrovò il labbro spaccato e un dente spezzato.
Ritornò subito dal confessore.
“Te l’ho già detto, figliola. Hai la lingua troppo lunga. Tagliatene un pezzetto. Venti Ave Marie e dieci Pater Nostri.”
Ecco, ecco, perché era lì, a chiedere consiglio.
*
Immersa come era nei ricordi, Bruna non si accorse che un paio di stivaloni neri ben tirati a lucido si erano avvicinati a lei.
Alzò la testa: si trovò di fronte un omone barbuto che le avrebbe fatto tremare le gambe in altri momenti. Era alto, un po’ in là con gli anni, tutto intabarrato di nero. Al fianco, un gran fucile.
Quello abbassò il tabarro, mostrando due baffoni grigi.
“Sposa, o che avete?”
La faccia era cattiva, la voce era roca, ma il tono era buono. Bruna si rincuorò.
Non seppe neppure lei come, confessò tutto. Gli mostrò qualche livido e pure il dente spezzato.
Alla fine l’uomo esplose in una risata gorgogliante da far tremare un morto.
“Sposa, c’è rimedio. Sarà facile, se mi state a sentire.”
“Sono tutta orecchi.”
Quello le si avvicinò all’orecchio e spifferò.
Bruna strabuzzò gli occhi.
“Davvero, davvero si può fare?”
“Si può far tutto, sì! Piuttosto, per riuscire non confidatevi con nessuno. Io certo non parlerò.”
“A sentir voi, in casa ho già tutto quel che serve.”
“Sposa, fatelo.”
“Lo farò domani, sì. Oggi non ci sarebbe più modo.”
Bruna sorrise fra sé. Con quel consiglio le pareva di essere rinata: già il dolore del labbro e del dente sembravano appartenere a un’altra.
Riaprì gli occhi: lo sconosciuto era sparito.
Campane lontane batterono le quattro: era l’ora di rientrare prima che Spiridione tornasse dal circolino. Non doveva scoprire che per cercare consiglio aveva lasciato Lia da sola, legata nella culla.
Tornò a casa, salì i ripidi gradini che la separavano dal camerone.
Come aveva ben fatto i conti, il marito non era ancora tornato dalla mescita, dove di regola perdeva a carte caffè di cicoria su caffè di cicoria. Certo, sarebbe stato parecchio nervoso, ma lei gli avrebbe fatto trovare la zuppa in caldo e soprattutto avrebbe fatto finta di dormire. Bene che quasi subito rifosse rimasta incinta, almeno quel bestione non l’avrebbe cercata per un pezzo. La bimba dormiva tranquilla, forse nel frattempo non si era neppure svegliata. La slegò subito e nascose la cinghia nell’armadio. Poi la prese in braccio, la scionnò un po’, le cambiò i panni sporchi con altri puliti e se l’attaccò al seno. La guardò: aveva sette mesi, ma era debole.
“Ci credo, mangio poco io, figuriamoci lei” pensò Bruna, “Pensare che la dovrei allattare fino a due anni prima di darle un po’ di minestrina. Sono pure incinta e dovrei mangiare per due. Mah!”
Finita la scarsa poppata, Bruna mise Lia nel lettone proprio accanto al suo posto. Poi scese in cucina.
Mise a riscaldare la pentola con la zuppa avanzata. L’annusò, affamata: doveva essere proprio buona. Peccato che non l’avrebbe potuta mangiare tutta, come avrebbe voluto, come non aveva potuto farlo nemmeno a mezzogiorno. Per mettere lo stomaco a tacere buttò giù solo una cucchiaiata.
Domani sarebbe stato tutto diverso.
All’improvviso le venne in mente la faccia ghignante dell’uomo del consiglio.
Bruna apparecchiò per uno, con tanto di fiasco di vino e un grosso pezzo di pane preso dalla madia.
Tornò in camera, si tolse la pezzola e due stracci che buttò a caso sulla sedia: in mutande e sottoveste entrò nel letto, accanto alla bimba. Si strofinò a lei e si addormentò.
Tempo dopo nel dormiveglia sentì brontolare il marito in cucina. Poi più nulla, si vede che si era saziato, e di gusto. Domani, sarebbe stato domani… Poi si addormentò del tutto.
La mattina, quando Bruna si svegliò, il sole era piuttosto alto. Il posto del marito era già vuoto: se ne era andato a lavorare nei campi.
“Meno male, fino all’ora di desinare non si rivedrà quel brutto muso. Chissà che troiaio ha lasciato in cucina.”
Si lavò alla meglio con l’acqua ghiaccia, vestì Lia e se stessa. Si fece coraggio e scese in cucina.
Come aveva immaginato, tutto era stato messo a soqquadro, mentre lei aveva fatto di tutto per lasciare in ordine. Sospirò.
Riscaldò metà del poco latte rimasto per Lia e metà per sé. Nella madia solo pane secco, il resto della coppia di pane del giorno prima era sparito.
Mise la bimba nel seggiolone e cominciò a rimettere a posto e pulire per terra. Abituata come era a sgobbare sodo, in un’ora la cucina tornò come prima.
Bruna sospirò.
Andò nel pollaio e prese qualche uovo. Poi scese in cantina, dove teneva la farina ben nascosta. Sotto chiave teneva pure un grosso salame, regalatole dal padre e destinato alle grandi occasioni. Ora era venuto il momento di assaggiarlo. Poi le venne in mente di cucinare uno dei piccioni che svolazzavano nel fienile.
Tornò in cucina.
“Bimba, oggi sarà Pasqua, Carnevale o Natale: salame, piccione fritto e un bel dolce.”
Si mise subito all’opera e in un battibaleno preparò una ciambella da infornare. Poi andò nel fienile e fece la festa al primo piccione che riuscì a prendere.
La donna tornò in cucina. Spennò, sventrò e squartò il piccione. Prese le uova e la farina avanzate, ci rotolò i pezzi dell’uccello e li mise a cuocere con un’erbetta che sapeva lei.
“Che profumino! Sono proprio brava. Che acquolina!”
Anche Lia rideva, battendo le manine all’insolito aroma che giungeva alle sue narici.
“Eh, sì. Mangiato bene io, pupperai latte più buono e mangerà bene anche tuo fratello!”
Quando Bruna si rese conto che il piccione era quasi pronto, cominciò ad apparecchiare la tavola. Scelse la migliore tovaglia del corredo, le migliori posate, i migliori bicchieri. Dalla parte del muro apparecchiò per sé e di fronte, dalla parte dell’ingresso, per Spiridione. Pose in tavola un fiasco di vino, una bottiglia d’acqua del pozzo. Tolse dal fuoco il tegame e la ciambella dal forno. Risolutamente mise il seggiolone con Lia accanto a sé.
“Uh già. Dimenticavo il più e il meglio.”
Andò nella stalla, dove preparò un fagotto.
Tornò in cucina. Mise il fagotto sotto la sua sedia e cominciò a servirsi abbondantemente di cibo e di vino.
Finalmente, si mise a sedere.
Attaccò il salame.
“Proprio saporito. Perché portare il vino e bere sempre l’acqua…”
Mise due fette nel piatto del marito, poi attaccò il piccione.
“Proprio tenero, ti ho scelto bene, vai …”
Mise due pezzi, quelli tutti ossi, nel secondo piatto del marito. Poi riempì il bicchiere di vino e lo trincò fino in fondo.
Come posò il bicchiere sulla tavola, sentì spalancare l’uscio e cadere la bisaccia. In casa rimbombò una bestemmia.
“Che fai, disgraziata?”
“Si mangia!”
Spiridione si guardò intorno a bocca aperta, occhi strabuzzati. Natale, Pasqua non era. Era troppo stupito per reagire con le mani.
“E io? Non mi aspetti?”
“Di quel che c’è non manca nulla. C’è anche il dolce. Accomodatevi.”
Con un sorriso la donna avvicinò la ciambella ai piatti di lui, poi si servi di una grossa fetta e la mangiò con gusto.
Senza neanche lavarsi le mani, l’uomo si lasciò cadere a sedere, ammaliato dalla scena.
Nulla, per quanti sforzi facesse, lei non pendeva dalle sue labbra: non lo guardava, seguitava a mangiare.
Col suo sguardo più cattivo Spiridione cominciò a fissare il piatto di lei, dove stava sparendo un’altra fetta di berlingozzo.
Bruna sorrise fra sé, fingendo di non vedere.
L’uomo alzò la voce, più grossa che poté.
“Mi montano…”
La donna sorrise, si chinò. Non perdendo di vista il marito, prese il fagotto sotto la sedia.
“Mi montano…”
Non fece in tempo a dire altro.
“A me mi scendono!”
Un colpo scagliato a due mani aveva spaccato la testa all’uomo seduto. Una mazza ben foderata, ora insanguinata, nelle mani di Bruna.
Lia si mise a ridere.
Rise anche la donna.
Il sangue ricamò di un rosso cupo la bellissima tovaglia.
“Via, domani si laverà anche te. Se non viene via la macchia, ti butto via!”
Bruna finì di mangiare la ciambella con calma. Si servì di un altro bicchiere di vino.
Il dente ricominciò a pulsare.
“Via, ora si sistema anche te.”
Aprì la madia. Riempì tutto il bicchiere del cognac rimasto in fondo a una bottiglia. Ne bevve un sorso per farsi uno sciacquo, che sputò nell’acquaio. Poi prese un coltello dalla lama molto affilata, con cui rimosse quasi tutto il dente. Altri sorsi per sciacquare e disinfettare la ferita. L’ultimo sorso, il più lungo, per bere tutto il cognac rimasto. Per smaltire il dolore bisognava dormirci su. Così le avevano insegnato.
Si guardò intorno. Si tastò la pancia. Era soddisfatta.
Allattò Lia, che sembrò accorgersi subito della differenza.
“Via, domattina si ripulirà ogni cosa.”
Tastò la bimba.
“Mi sa che l’hai fatta. Ti devo cambiare.”
Prese la piccola con delicatezza e salì gli scalini.

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